di Bruno Ciccaglione

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In una celebre dichiarazione del 1962, il Generale Charles De Gaulle disse: “Come si può governare un paese dove esistono 246 varietà di formaggio?”. Il primo Presidente della Quinta Repubblica francese segnalava così una contraddizione tra la visione unitaria della nazione e la irriducibile varietà delle colture e culture locali: tanto che i produttori gli risposero che in realtà le varietà di formaggi locali erano più di mille!

Erano altri tempi, si potrebbe dire: Il nazionalismo veniva da tutti percepito come la cultura che aveva prodotto il disastro delle due guerre mondiali. Oggi invece, dopo trenta anni di globalizzazione economica e di politiche economiche ed agricole che hanno sistematicamente favorito i grandi colossi dell’agrobusiness, il nazionalismo contemporaneo sembra aver risolto la contraddizione tra realtà locali e particolari. L’idea di una agricoltura (e una gastronomia) nazionale si manifesta con la tutela e la protezione di una innumerevole varietà di prodotti locali, così da consentire loro di renderli competitivi sul mercato globale in uno strano miscuglio di protezionismo e liberismo (un modello che però pare solo un altro modo per continuare a promuovere politiche agrarie e modelli di produzione e consumo che continuano a favorire i grandi colossi dell’agrobusiness a danno dei piccoli produttori e dell’ambiente).

Il caso italiano

In questo senso il caso italiano è emblematico, tanto che negli ultimi anni molti parlano esplicitamente di “gastro-nazionalismo”, per indicare la convinzione che i prodotti italiani siano i migliori del mondo e che naturalmente la cucina italiana sia la migliore del mondo, con origini che vanno fatte risalire a secoli se non a millenni addietro.
A guastare la festa di questa autocelebrazione attraverso una narrazione spesso completamente inventata di origini leggendarie e secolari, sono ormai da alcuni anni sempre più numerosi e bistrattati – ma anche per contro diventati molto popolari – gli appartenenti a una categoria che fino a qualche anno fa era sconosciuta dal grande pubblico: gli storici dell’alimentazione.

A partire dagli insegnamenti di Marc Bloch, lo storico francese che morì fucilato perché partigiano nel 1944, gli storici non si occupano più soltanto della storia fatta dai grandi leader, dai capi di stato, dai grandi e famosi personaggi della storia, ma anche di ciò che avveniva nella vita quotidiana delle persone normali in ciascuna società oggetto di studio.
Ma Bloch, nel suo applicare il metodo della ricerca storica ad aspetti precedentemente trascurati, come la storia dei sistemi alimentari, offrirà alle generazioni di storici che seguirono un punto di vista che ci aiuta a chiarire molti equivoci.

La ghianda e la quercia


È celebre l’esempio che Bloch fece per capire a che cosa serva la conoscenza della storia, l’esempio della ghianda e della quercia. Senza la ghianda non può nascere alcuna quercia, ma di per sé la ghianda da sola non produce necessariamente una quercia. Perché una ghianda si trasformi effettivamente in una quercia c’è bisogno che essa “incontri” tutta una serie di altri elementi: un terreno adatto, delle condizioni climatiche che favoriscano la crescita della pianta, l’assenza di eventi eccezionali (di origine naturale o provocati dagli altri esseri viventi, animali o esseri umani) ecc. La quercia, spiegava Bloch, esiste solo grazie alla “storia” che quella ghianda ha avuto e quella storia è fatta di incontri, di relazioni con l’ambiente circostante: non sono le origini a spiegare che cosa sia una quercia, a spiegare la sua identità, bensì è la storia degli incontri e delle relazioni a determinare che cosa sia e come sia una quercia.

A partire da questo approccio, ad esempio, uno dei più importanti storici dell’alimentazione italiani, Massimo Montanari, ha voluto raccontare la storia di uno dei piatti più iconografici della cucina italiana, gli spaghetti al pomodoro. Se si volesse spiegare il più identitario dei piatti italiani attraverso la mitizzazione delle sue origini, si dovrebbe inventare una tradizione completamente falsa. Infatti quasi nessuno degli ingredienti necessari a preparare gli spaghetti al pomodoro ha origini in Italia: le ricerche storiche ci dicono che gli spaghetti furono introdotti dal Medio Oriente in Sicilia ad opera degli arabi intorno al nono secolo dopo Cristo; i pomodori arrivano dal Centro America a partire dal sedicesimo secolo, ma prima di essere combinati con gli spaghetti bisognerà attendere il diciannovesimo secolo; l’aglio e il basilico vengono dall’oriente; l’olio di oliva viene dalla Grecia, ma anche questo ingrediente diventerà tipico nella preparazione degli spaghetti al pomodoro soltanto nel ventesimo secolo; l’unico ingrediente che ha origini italiane è il formaggio, ma anche qui non è possibile individuarne un unico tipo (per semplificare: formaggi tipo il parmigiano al nord e pecorino al sud).

In altre parole: l’identità italiana che pure si concretizza in un piatto iconico non è spiegata dalle origini, per quanto mitiche le si voglia raccontare, ma è invece spiegata dalla Storia. È la storia delle interazioni tra popoli, culture e usanze che avvengono nel corso dei secoli a costruire una identità.

Adattamenti e scambi

La cosa più affascinante che gli storici capiscono studiando come è cambiato il modo di produrre alimenti e il modo di mangiare, come sono cambiati i sistemi alimentari nelle varie epoche storiche è la consapevolezza che quindi una identità non è qualcosa di fisso. Scolpito nella pietra e immutabile come le tavole di una legge arcaica. Gli spaghetti al pomodoro o la pizza sono percepiti come un piatto identitario italiano oggi, ma soltanto cento anni sarebbero stati probabilmente percepiti come piatti della città di Napoli, per lo più esotici o sconosciuti in gran parte dell’Italia, come testimoniano i ricettari del diciannovesimo secolo e dell’inizio del ventesimo secolo.

L’esempio italiano ci suggerisce che qualcosa di simile accada sempre, le identità culturali e i sistemi alimentari sono in continua evoluzione e sono sempre il frutto di scambi e interrelazioni, incontri e scontri tra popoli e culture (pensiamo a come stanno entrando i cibi di tutto il mondo nel nostro sistema alimentare, dal sushi ai kebab). Siamo tra l’altro in un’epoca in cui la crisi climatica sta mettendo a dura prova il mito delle origini. Ciò che di specifico e tipico avevano alcuni territori, a garantire la unicità e tipicità dei suoi prodotti alimentari (si pensi ai vini, ma in generale a tutti i prodotti agricoli), sta inesorabilmente cambiando e se in area mediterranea cominciano ad apparire le coltivazioni di prodotti di origini tropicali (il mango in Sicilia, ad esempio), le coltivazioni di olio d’oliva e di vino si stanno spostando verso latitudini finora impensate.
Intervistato su quale fosse l’ingrediente più importante della sua cucina, Massimo Bottura una volta rispose: “La cultura!”. Dall’esempio italiano si impari a diffidare dalle “tradizioni”: come spiegava un altro grande storico, Eric Hobsbawn, spesso le tradizioni sono inventate nei momenti di crisi di una società disorientata da un presente difficile da comprendere. La “tradizione” della cucina italiana per la stragrande maggioranza della popolazione italiana era costituita da secoli di fame, di polente al nord e di minestre di erbe al sud. Ci sono certo molte cose che dobbiamo recuperare dal mondo contadino del passato, ma senza creare falsi miti.

Riferimenti bibliografici:

  • Il mito delle origini, breve storia degli spaghetti al pomodoro, Massimo Montanari (Editori Laterza, 2019)
  • Denominazione di Origine Inventata, le bugie del marketing sui prodotti tipici italiani, Alberto Grandi (Mondadori, 2018)
  • L’invenzione della tradizione, Eric Hobsbawn (Einaudi, 1983)

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